Luigi CalabresiLo dico sottovoce, ma gli anni ’70 per me sono una ferita ancora aperta. Non per l’età (li ho vissuti di striscio o sulla pelle di qualche amico più grande) ma perché Roma, la mia città, ha ancora un buco di memoria che per quelli che vengono dalla mia storia, dalla parte maledetta, da quella generazione proscritta che neanche von Salomon avrebbe amato, rimane una voragine che ha inghiottito sogni e ragioni. I ragazzi ammazzati, gli amici in galera, le vite distrutte si aggirano come fantasmi nelle piazze e nelle strade di Roma… nelle lapidi sparse di una guerra civile mai digerita e che come un incubo oggi torna a galla… nella violenza dei centri sociali, nella stupidità che ha mandato ieri in ospedale tre ragazzi nel solito, complice silenzio di un Sindaco troppo buono per essere sincero.
Ne parlo spesso degli anni ’70 e non so perché. Forse perché la mia generazione ha vissuto come un senso di colpa il non esserci stata… o forse perché quegli anni mi fanno ancora paura. E la via dedicata a Paolo forse non chiude la parentesi. Ciò che ancora spaventa non è il sangue versato, la morte, il dolore prodotto; è qualcosa di più indefinibile che crea rabbia e sconcerto.
A Primavalle, tre figli della buona borghesia romana decisero di dare fuoco alla povera casa di un netturbino missino con 6 figli. Ne uccisero due, Virgilio e Stefano, lasciandoli abbracciati l’uno all’altro divorati dalle fiamme: avevano 22 e 8 anni. Quando i tre imputati furono assolti, nel processo di primo grado, Alberto Moravia, il grande scrittore, andò a festeggiare a coppe di champagne nella villa di uno di loro a Fregene, insieme a giornalisti e intellettuali. In quel clima assurdo e irreale la rivoluzione avanzava con una tanica di benzina ed una coppa di champagne.
C’era una follia in quegli anni che non si può rimuovere e cancellare solo perché il tempo diventa l’alibi per l’oblio. C’era un’Italia intellettuale, colta, raffinata e borghese che giocò alla rivoluzione addestrandosi sulla pelle dei ragazzi di destra per poi alzare il tiro su poliziotti, magistrati e giornalisti. Un’Italia che non ha neanche avuto il coraggio di prendere una pistola in mano ma che con la penna ha aiutato ad uccidere, rimanendo nascosta nell’ombra. Adriano Sofri, almeno di questa Italia, ne ha fatto parte; anzi ne e’ stato uno dei protagonisti. Non si è limitato a scrivere cazzate…come dice Rocca. Ha fatto qualcosa di più. Ha costruito l’odio. Lo ha costruito lucidamente; ha costruito l’impalcatura che sosteneva la follia di quella generazione, e lo ha fatto con consapevolezza e spietata convinzione.

Oggi Sofri è un altro uomo, inevitabilmente: perché il tempo lacera i profili, leviga come fa il vento con la montagna. Anche Francesca Mambro è un’altra donna. E forse anche Achille Lollo non è ciò che era ieri, se non altro perché ha un figlio che avrà guardato negli occhi qualche volta. Ma memoria e giustizia non appartengono solo alla coscienza individuale, o al dolore e al rimorso di chi sa elaborare; memoria e giustizia appartengono anche alla collettività.
E allora, se c’è solo un dubbio che il processo a Sofri sia stato viziato nella forma o nella sostanza, in difesa di uno straccio di Stato di diritto si riapra il processo, si cerchi la verità (che forse Sofri stesso conosce molto bene). Oppure si conceda la Grazia, anche se non richiesta come atto di clemenza di uno Stato democratico verso una generazione fallita per chiudere una stagione; ma senza scomodare Socrate, ridicolo paragone che confonde l’ingiustizia di un’innocenza certa, con la giustizia di una colpevolezza fino ad oggi accertata. Oppure si renda la sospensione della pena ad un uomo malato, in nome di una pietà necessaria a qualsiasi giustizia.
Ma vi prego smettetela con questa cantilena trasversale che vuole innalzare Adriano Sofri a vittima del sistema. Dei giudici in toga di uno stato democratico hanno condannato Sofri, garantendogli appelli e possibilità di difesa; mentre Sofri da giudice, condannò un uomo innocente senza lasciargli neanche il tempo di capire.

Perché di tutta questa storia di morte, di dolore, di fallimento umano e di pietà c’è solo una vittima: si chiama Luigi Calabresi, ucciso innocente dopo la condanna a morte di un tribunale proletario… di cui Adriano Sofri fu uno dei giudici più zelanti.