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E’ difficile ricordare una guerra che abbia riscosso un consenso così unanime come quella contro la Libia. I media (quelli progressisti e quelli conservatori), gli intellettuali (quelli seriosi e quelli più comici), gli opinion makers (quelli seguiti dalla gente e quelli inseguiti dalla stupidità), insomma, tutti quelli cui è demandato il compito di formare quel “fenomeno dell’istinto” che per Pessoa era l’opinione pubblica, hanno impiegato ogni risorsa per giustificare la natura umanitaria dell’intervento.
Il filosofo francese Bernard-Henri Lévy, quello che definì “insensata” la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein, è stato uno dei menestrelli che più ha strimpellato le corde dell’interventismo francese e occidentale contro il despota di Tripoli. In uno dei suoi recenti interventi sul settimanale parigino Le Point, ha affermato che con la guerra libica è morta “l’antica concezione di sovranità” ed è sorta “l’idea di una universalità dei diritti, obbligo vincolante per chiunque creda sul serio nell’unità del genere umano e nella virtù del diritto d’ingerenza”.
Dall’altra parte dell’oceano, nell’America di Obama, le valutazioni degli osservatori sono simili. Su Foreign Affairs, Stewart Patrick, ha delineato la nuova dottrina americana, capace di dare forma al “crescente impulso globale dell’imperativo umanitario”. La Libia è stata il banco di prova attraverso cui l’amministrazione Obama ha consolidato la dottrina RtoP (Responsabilità alla Protezione) delle Nazioni Unite; e lo ha fatto attraverso un atto ufficiale, il PSD-10 (Presidential Study Directive on Mass Atrocities), in cui ha definito la prevenzione delle atrocità di massa come “interesse nazionale primario e principale responsabilità morale degli Stati Uniti”.
Sia il filosofo francese che lo stratega americano incarnano ciò che George Friedman, in un saggio pubblicato su Stratfor, la Bibbia della geopolitica, definisce “Intervento immacolato”: l’idea astratta che una guerra si possa limitare a difendere diritti universali o a proteggere la popolazione, senza produrre effetti politici collaterali. La verità, come ha scritto Steven Erlanger sul New York Times, è che la Nato in Libia non è intervenuta  per proteggere civili “ma a favore di una delle parti impegnate in una guerra civile”. L’obiettivo era il cambio di regime. D’altronde, Amnesty International, in un report del 13 settembre, ha denunciato anche i crimini impuniti commessi dai ribelli anti-Gheddafi, comprendenti assassini in massa di prigionieri, torture, sparizioni e arresti arbitrari, compiuti spesso contro civili e lavoratori stranieri accusati di essere mercenari.
Ecco allora che la guerra in Libia svela una nuova dottrina che nulla ha a che fare con i propositi dichiarati dagli apologeti dell’umanitarismo bellico. Per capirlo, basta un confronto con i precedenti di Serbia e Iraq. L’intervento internazionale contro la Serbia di Milosevic si basò su documentati crimini contro popolazioni civili commessi dal dittatore serbo, accertati da organizzazioni internazionali e osservatori neutrali. Questo indusse la comunità a non optare per una semplice operazione di peace-keeping ma per una vera guerra finalizzata ad abbattere quel regime e consegnare Milosevic ad un tribunale internazionale. In Iraq, invece, la ragione umanitaria fu solo una delle tante e neanche la più importante. Certo, Saddam era un feroce dittatore, ma alla base della dottrina della “guerra preventiva”, elaborata da Bush e dagli strateghi neocon, vi era la necessità di tutelare la sicurezza degli Stati Uniti, nella convinzione (sincera o meno) che Saddam detenesse armi di distruzione di massa e rapporti con organizzazioni terroristiche jihadiste.
Nel caso della Libia, invece, ci troviamo di fronte ad una guerra al contempo umanitaria (come per la Serbia) e preventiva (come per l’Iraq). Gheddafi infatti è stato attaccato non perché rappresentava una minaccia per il mondo (anzi per buona parte di esso era diventato un alleato strategico), né per crimini accertati durante la recente guerra civile, ma solo per quelli ipotetici che avrebbe potuto commettere. Nel marzo scorso, due giorni dopo l’approvazione della risoluzione 1973 con cui l’Onu imponeva la no-fly zone, il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, dichiarava che: “abbiamo ogni ragione di temere che se lasciato incontrollato Gheddafi possa commettere atrocità inesprimibili”. Nessuna certezza che le avesse commesse, ma solo il timore a giustificare l’intervento armato.
La guerra libica ha inaugurato la prima guerra umanitaria preventiva. Una idea che accelera la decomposizione dell’ordine internazionale fondato sul principio di autodeterminazione dei popoli e sulla dottrina della non ingerenza negli affari interni di uno Stato. Ma non è detto che all’orizzonte si profili il regno dei diritti universali immaginato da Bernard-Henry Lévy. Più facile che, smantellati i principi ordinativi che davano legittimità agli stati nazionali e in assenza di un’autorità sovra-nazionale forte, il mondo si trasformi nel Chaostan (la terra del grande Caos) immaginata dall’economista Richard Maybury.

© Il Tempo, 19 Settembre 2011

Immagine: Benjamin Lowy, Lybia, 2011